Una banana

Due mandarini

Due mele

Una donna coi tacchi si avvicina

Una conchiglia

Un incenso acceso

Un ombrello

Ascolta se ancora respira

Tre coperte

Una barretta di cioccolato

Un cartone di vino

Dorme a volte per giorni

Una barba nera

Due occhi grandi

Due gambe secche

Avvolto come una mummia

A Franz che sorrideva a mio figlio

Un giglio sul materasso vuoto

(Non più buoni propositi

Cattivi pensieri

La puzza opprimente

Coperte stese ad asciugare).

Dal secolo XIX

Genova. Piazza dell’Annunziata

Seduta sui gradini della chiesa. Quadrelli, armato di bastone e cappello, canta a ragazzini che ridono imbarazzati. Lui gesticola: “c’è un mondo psichedelico”. Loro distolgono lo sguardo. Lui si allontana, appoggiato al bastone, trascinando la gamba destra, il volto sereno. Una di loro ride singhiozzando. Quadrelli l’ho sempre viso col bastone e il cappello, piombare in mezzo a discussioni o a concerti,  a raccontare i suo mondo di suoni e a scroccare qualche tiro. Ma solitamente c’è sempre qualcuno che se lo ricorda quando ancora non aveva il bastone (quel brutto male…). Oggi quel qualcuno non c’è e i ragazzi ridono, si alzano dai gradini bianchi della chiesa e se ne vanno verso via Babi.

Dall’altra parte della strada, di fronte alla chiesa, grande e bianca, a quattro colonne e 14 scalini, c’è un palazzo verde decorato con capitelli corinzi, conchiglie e uccelli. Al centro della via c’è una rotonda con siepe e palme. Sto aspettando mia madre da quasi due ore e mi si congelano i piedi.

Genova. Piazza Durazzo

piazza-durazzoOre 15.30. Sono seduta su una panchina in cemento a prendere il sole. Qualche raggio che si incanala tra gli alti palazzi. L’ombra e la luce hanno confini netti di calore e di umidità. I due alberelli della piazza, che  sono stati ripiantati, svettano alti e spogli. Sulla piazza si affacciano: un negozio di decorazioni su vetro, un negozio di scommesse sportive, un’attività senza insegna con la saracinesca aperta e le tende tirate, una moschea.

Le quattro saracinesche della moschea sono verdi, un tempo erano di proprietà di un vecchietto che aveva un negozio di edilizia. Come negozio di edilizia era caro come il sangue ma comodo, a cinquanta metri dal nostro cantiere, ovvero la nostra attuale casa. Il vecchietto voleva ritirarsi ma, per l’affitto dei muri,  chiedeva tanti soldi. Noi siamo partiti per Ankara con l’ape del nonnetto sempre posteggiata in piazzetta. Dopo i lavori di restauro attuati dal comune, la piazzetta era diventata un posteggio abusivo di moto, gli alberi erano stati divelti e cicche e rumenta varia giaceva all’ombra delle panchine di cemento.

Tornati a maggio dell’anno scorso abbiamo visto che il vecchietto non c’era più. Una notte mi sono svegliata col canto del muezzin. Anche Enrico si era svegliato: allucinazioni uditive collettive.

Qualche giorno dopo una mia amica ha detto che non ama passare per la piazza perché vi hanno aperto una moschea. L’interno dell’ex negozio di edilizia, ampio e a volte, è stato ridipinto di bianco. Una striscia rossa circonda in basso una delle colonne. A terra tappeti. Al soffitto una bella lampada. Le grandi vetrate sono pulite, la piazza è pulita, non vi sono più posteggiate moto, sul pavimento in mattoni non vi è più rumenta. La moschea è come un polmone che si riempie (inspira) si svuota (espira) in concomitanza con le ore dedicate alla preghiera. Vi ho visto solo uomini silenziosi. Un foglio è appeso in una delle serrande verdi, è stampato al computer su un A4 bianco, è stato ritagliato nei due angoli in alto per risultare più ordinato. Vi è scritto: “ASSOCIAZIONE AL FAJER”.