Ankara -L’esame di turco

Siamo a Kogulu park, sedute su una panchina ad osservare i piccioni. Lina è vicino a me e le dico che in Italia i piccioni non sono ben visti, dei topi con le ali insomma, lei mi chiede perché. Che ne so, è così. Sono sporchi e hanno le malattie, dovrei dirgli ma mi vergogno, come di una cosa tanto evidente quando si è in casa propria che vista con gli occhi di altri diventa arbitraria. Lina mi racconta di suo fratello, è in Siria e va a scuola, l’altro giorno erano tutti preoccupati perché non era tornato a casa e non rispondeva al cellulare, poi era andato in un bar con gli amici a vedere una partita del Barcellona. Mi racconta ancora che ieri era il suo compleanno e sua mamma e sua sorella l’hanno chiamata con skype e gli hanno cantato tanti auguri e da lontano sentiva le esplosioni. Mi ha detto che la Siria non è libera ed è per questo che c’è la guerra.

L’altro giorno a lezione, durante una pausa, Zoe ha chiesto all’irakeno se era sciita o sunnita, cristiano ha risposto lui. E voi?, ho chiesto a Zoe dalla chioma fluente e le ciglia prensili e a Lina, velata e poco truccata: Sunnite, hanno risposto entrambe. Qual’è la differenza?, le chiedo. Lina mi risponde: “Nessuna prima della guerra”. Quale guerra? chiedo ancora e lei mi guarda con aria interrogativa, come se le avessi detto che non so che siamo in guerra da anni. “Quella di Bush padre?” dico io con cautela. “Certo”, risponde lei, contenta di non aver a che fare con una perfetta imbecille.

Voi italiani siete diversi, mi dice, con voi si può parlare. Abbiamo finito di fare l’esame di turco, siamo passate anche se l’esame era difficile e stupido, ottuso sarebbe il termine giusto. Ci salutiamo promettendoci di vederci ancora, di imparare il turco, di trovare un lavoro.

“Sai, si crede che le donne musulmane non vogliano essere indipendenti, non è vero”. E penso alla bella Anya e ai suoi tacchi alti e al suo sorriso dolce. Buona fortuna ragazze, ovunque ci conducano le nostre strade.

Ankara- Kucuk hanimlar kucuk beyler

Sono le 7, come al solito il sabato si dorme poco. Un nano malefico si alza e inizia a dare il buongiorno: “Mamma è giorno, papà bisogna preparare la colazione”. Poi chiede conferma: “Oggi è festa? La scuola è chiusa?”. Come se non lo sapesse, quando deve andare a scuola non c’è verso di farlo alzare.

Ok, ci svegliamo, prepariamo la colazione, va bene, non saltare sul letto.

Abbiamo trasferito la sua camera dalla stanzetta di fronte al bagno alla veranda del

la camera da letto, completamente vetrata, esposta a sud e con i piccioni che iniziano a ballare sopra le lamiere del tetto che sostengono i vetri. Per terra c’è un grande materasso che quest’inverno serviva solo per saltare. La decisione è stata presa quando ci siamo ritrovati per la terza volta a dormire in tre nel piccolo letto della stanzetta: noi per sfuggire a Michele e Michele per inseguirci. Almeno ora ci ritroviamo a dormire tutti e tre in veranda.

Che fare così presto? Anne ieri mi ha dato un programma degli spettacoli del festival di teatro ragazzi, sempre in occasione della festa dei bambini.

Facendo un po’ di ricerche con internet scopra che abbiamo due teatri vicino a Kugulu park, che ci sono ancora biglietti per oggi e che li posso comprare ora.

Primo spettacolo ore 11, secondo ore 14.

Il primo è di una compagnia italiana e: “Corri Michele, vestiti, andiamo a vedere uno spettacolo in Italiano!”

Arriviamo a teatro e riesco a ritirare i biglietti comprati sul internet. La sala è bella, grande e moderna. Non c’è molta gente nonostante i biglietti fossero quasi esauriti. Certo, costano 4 lire a biglietto e sono quasi sempre esauriti, per 4 lire uno li compra anche se non sa se può andarci. Ci spostiamo in prima fila anche se dovevamo essere in dodicesima. Entrano due ragazze che leggono una breve spiegazione dello spettacolo, prima in turco e poi in inglese. Lo spettacolo ha la particolarità di essere muto.

Muto ma bello e i due attori più il rumorista sono bravi, soprattutto il protagonista, compagnia “principio attivo teatro”. I bambini ridono e si spaventano, Michele grida in italiano, gli altri in turco.

Dopo una breve parentesi al Kugulu park via verso lo spettacolo polacco: “La regina delle nevi”.

Un bel balletto, interpreti bravi ma carente dal punto di vista drammaturgico. Alla fine dello spettacolo Michele ha urlato, nel silenzio del finale: “Mi hanno ghiacciato il cuore”.

Riflessione triste: gli italiani erano in tre, i polacchi in 15 attori.

Domani andiamo a vedere uno spettacolo in Russo.

Ankara e la festa dei bambini

Ore 17,00: siamo all’asilo di Michele per la festa dei bambini. I bambini stanno ballando e io mi avvicino piano piano per non farmi vedere da Michele. Fin dall’inizio ho avuto la sensazione, poi confermata da Anne seguendo i racconti di Mattei, che Michele venisse isolato dagli altri bambini in quanto straniero. Nel giardino i genitori fanno capannello attorno ai bambini e alle maestre che stanno ballando la solita terribile musica pop turca, i balli sono ispirati alla tradizione e Michele volteggia tra le bambine che se lo passano ridendo. E lo chiamano: Mikele, Mikele.

Brutto infingardo che non è altro!

Appena mi vede smette di saltare e corre ad abbracciarmi facendo la faccia del bambino abbandonato. Basta, non mi lascia più. Devo aspettare l’arrivo di un Garfield gigante per farmi dimenticare nuovamente. Nehil piange perché non c’è la sua mamma e allora prendo il coraggio e chiamo Mina al telefono, in Inglese. Arriva anche Anne e anche lei viene presa d’assalto da Mattei e Paul. Sui cancelli e sui tavoli sono appesi tutti i lavori dei bambini che poi noi mamme raccogliamo come fiori: collage, ebru, ceramiche, disegni, giocattoli costruiti con materiali di riciclo. Io non resisto e raccolgo anche tre foto del padre della patria abbelliti con fiori di carta dai bambini, credo che insieme alle bandierine turche rappresentino un bel bottino. Non sono riuscita a prendere i palloncini con la mezzaluna e la stella. Chissà dove si comprano? I cuochi portano dolci e borek salate. Garfield vende oggetti a sei volte tanto il prezzo di mercato (così mi dice Mina) sicuro che nessuno dei genitori dirà no hai propri bambini. Ed è proprio così, in una nazione dove ci sono bimbi che non vanno a scuola e lavorano scalzi nei campi, tanti altri sono viziati in maniera incredibile. La sera Michele mi racconta che ha tirato le pietroline che stanno dai giochi a Garfield. Poveretto.

Cappadokia -lunedì

Oggi è il giorno della festa dei bambini e dalla piazza principale di Urgup si sente la musica registrata e le parole dell’autorità. Andiamo nel punto panoramico e, insieme ai ragazzini delle medie che fanno da spola tra la piazza e la rupe, guardiamo i festeggiamenti. In piazza ci sono tutti: capi militari e politici al gran completo che assistono alle performance che tutte le scuole presentano. Sono tante danze, tradizionali o meno, il cui argomento è uno solo: la bandiera Turca. Un enorme foto del padre della patria troneggia su tutto. All’inno anche i ragazzetti delle medie fuggiaschi cantano. Tra di noi scherziamo: se fossimo in Italia ci sarebbero almeno tre contro-manifestazioni.

Germano e Sergio vogliono andare a fare un giro nella profonda Cappadokia e risaliamo in macchina andando ancora più a sud. Dopo che Mustafa (la giuda di ieri) mi ha raccontato la storia delle casette di pietra il paesaggio acquista un altro significato: una decina di anni fa lo stato ha vietato ai paesani di vivere nelle grotte dove ancora abitavano e gli ha costruito delle casette, del tutto uguali alle case dei nostri terremotati, una decina per paesello, tutte vicine e squadrate, con pannelli solari, acqua ed elettricità. Ogni paesello è distante dagli altri. Donne infagottate, bambini che lavorano e polvere. Una povertà profonda che dalla macchina si vede di sfuggita ed è incredibile che il turismo non sia riuscita a scalfirla.

Cappadokia -domenica

Siamo stati dei bravi turisti e abbiamo visitato tutto. Preso una guida turca locale che ci ha raccontato tante stupidaggini ( ma da bravi genovesi l’abbiamo pagata poco, tanto si è rifatto facendo la cresta sulla cena). Abbiamo visto la cooperativa parastatale che fabbrica i tappeti con tanto di spiegone e bachi da seta. Abbiamo visto la fabbricazione delle ceramiche locali, siamo andati all’Hammam ( che è una figata) e abbiamo partecipato a una cena con tanto di danza del ventre, dervisci e danza delle spade. Alla cena c’eravamo noi, dei giapponesi e tre tavoli di turchi che venivano ad ubriacarsi. Sembrava di essere dentro una citazione letteraria: Pamuk nella “casa del silenzio” descrive una cena del genere dove un suo protagonista si perde nell’alcol, nella volgarità e nelle grida di gioia. 

Michele era felicissimo: ha ballato e fatto a pugni con altri bimbi turchi per poi andare a rubare il cibo dai piatti quando ormai tutto si è trasformato in una disco pop alla turca. Per finire l’inno alla Turchia con tanto di ballerini che hanno formato una delle statue celebri del padre della patria, Turchi gidelim (andiamo) fa il ritornello. Come si diceva a scuola: stanchi ma felici siamo tornati a casa.

Cappadokia -sabato

Partiamo presto e per tre ore e tre quarti non facciamo che andare dritti, una lunga strada senza svolte, in mezzo al nulla. Quando siamo andati ad Istanbul, a marzo, questo nulla era bianco, ora è grigio/verde. A tratti campi coltivati a zappa dove donne infagottate, bambini e uomini formano delle piccole linee perse nella grandezza dei campi. Gli alberi si possono contare sulle dita della mano, qualche cespuglio. Sorpassiamo ben due laghi salati, ovvero paludi salmastre che in estate si prosciugano e ne estraggono il sale. Sono enormi e inanimati. Poi di nuovo il nulla grigio/verde. Finalmente arriviamo in una cittadina dove il navigatore ci indica una svolta a sinistra, nell’unico incrocio perdiamo la macchina degli ansaldini, nostri compagni di viaggio. Sono stati fermati dalla polizia e hanno preso una multa. Sergio e Germano, i colleghi di Enrico più grandi,  hanno la scioltezza di chi ha fatto più cantieri e, anche se non parlano la lingua del posto, si fanno capire e si trovano a loro agio.  Ora passano anche dei grandi trattori con le donne sedute nei cassoni dietro. Tutte portano dei grandi fazzoletti sul capo, diversi da quelli della moglie di Erdogan e di tutte le nuove musulmane: sono i fazzoletti tradizionali a fiori, simili a quelli delle nostre nonne o bis-nonne. Arriviamo a Urgup, una cittadina turistica e portiamo le valigie in albergo.

In uno stentato inglese i proprietari dell’albergo provano a venderci la qualunque: dalla gita al volo in mongolfiera, alla danza del ventre ai dervisci rotanti. Enrico chiede venia e scappiamo a mangiare.

Ankara- Una visita da lontano

Dopo aver preso il 427 ed essere scesa ad Ulus mi sono inerpicata verso la Cittadella. Un signore in giacca e cravatta e la faccia da turco magro mi ha chiesto se volevo un passaggio, stava giusto giusto andando a prendere la macchina. Ho rifiutato. Dopo cinque minuti di salita stile via Assarotti il turco magro si ripresenta in macchina, come tutti i tacchini del mondo mi segue a passo d’uomo e mi ri-propone il suo disinteressato aiuto. Va bene, tanto sono sopravvissuta a cascamorti anche peggiori di un turco brillantinato. Salgo in macchina e sfoggio tutto il mio turco inesistente. Benim Adim Arianna, Italialym, ben evlim, hayir, benim numeranin telefonum vermiyorum cunku benim esim…. ( mi chiamo arianna, sono italiana, sono sposata, non non dò il mio numero di telefono perché mio marito…), per mia fortuna non devo neanche finire la frase, alla parola marito si fa subito rispettoso.

Mi lascia davanti al museo delle ” Civiltà anatoliche”, mi sono risparmiata una salita che non finiva più e sono solo le 9 e 45, la zia Orsola dovrebbe arrivare per le 10 e mezza. Mi siedo sul muretto di fronte al museo. Sono felice di vedere la zia, il tempo è bello e il museo non l’ho ancora visto e tutti ne parlano molto bene, ha anche vinto un premio come miglior museo Europeo ( ancora questa confusione se la Turchia è Europa o no, e più ci vivo e più penso di no anche se ha influenzato tanto della nostra storia che forse è come la Grecia, difficile chiamare Europa un luogo senza di lei).

Il museo è subito sotto la Cittadella, un monte in mezzo ad Ankara dal quale si ha una visione aerea della città. Il venerdì a mezzogiorno, quando i minareti iniziano a cantare e a rispondersi, sembra di essere sospesi nel cielo col mondo sotto i piedi. Ma ora  non è mezzogiorno e attorno a me c’è un’umanità solitamente estranea alla Signora Ankara: ci sono i pulman dei turisti e subito richiamano un nugolo di venditori cenciosi che li accoglie per  ricavarne qualcosa.

Ci sono i banchetti che vendono gli occhi di balena, come chiama Michele gli amuleti turchi, e braccialetti, tovaglie ricamate a nastri e cappellini. Tutti spiaccicano qualche parola in tutte le lingue, Italiano compreso e tutti accettano euro con un equiparazione a 1 euro 1 lira turca  (il cambio è tra 1,30 e 1,40).

E i pulman continuano ad arrivare e a riversare facce un po’ sperdute che si ritraggono e subito entrano nel museo per uscirne e risalire sul pulman verso la Cappadokia. Di Ankara tutte queste persone hanno visto solo la cima del pizzo più alto della città, hanno rimirato la sua estensione e i suoi zingarelli e poi se ne sono andati via.

La zia mi manda un messaggio e mi dice che arriva con un ora di ritardo perché non sono ancora entrati in città. Ieri hanno visitato Istanbul, hanno dormito a metà strada e poi proseguiranno per il resto della nazione: tutta la Turchia in otto giorni, credo che si chiami il tour.

Davanti a me c’è una macchina bianca, dentro un uomo più vecchio che giovane, dalla faccia rossa e dal respiro affannato si presenta come guida del museo ufficiale in italiano e in francese. Affianco a lui una ragazza più giovane si affanna a vendere delle tovagliette ricamate ogni volta che un pulman arriva.

Dopo esserci scambiati qualche stentato convenevolo in italiano iniziamo a parlare in francese. Lui è un professore di letteratura che ha lavorato tanti anni in Francia, lei ha una figlia nata là e quindi francese, si lamentano di quanto sia cara la scuola francese di Ankara e mi fanno un sacco di domande a cui cerco di rispondere in maniera evasiva. ‘E mai possibile che i turchi vadano sempre così sul personale: quanto guadagni (la cifra precisa), dove va tuo figlio a scuola (il nome della scuola), dove abiti (il nome della via) ecc.. non è la prima volta che mi capita e ho sempre una sensazione di disagio quindi dico le prime bugie che mi vengono in mente. Le prime volte ero convinta che mi volessero rapire Michele, l’ho anche sognato e ora non riesco più a vedere la mamma e il papà di una compagna di Michele con la stessa simpatia di prima, poi ci ho fatto l’abitudine e dico delle bugie, tanto per stare tranquilla. Ma loro no, ti danno anche l’indirizzo di casa loro. Dopo un po’ il signore rubicondo si mette in testa di insegnarmi il turco e inizia a farmi ripetere delle frasi qualunque che poi traduciamo in francese. Passa l’ora in cui la zia doveva arrivare. Ho finito il mio succo di nar (melograno) e la guida mi propone di fare un lavoro per lui. Dal bagagliaio tira fuori un libricino con delle foto a colori, è il suo tour del museo, scritto in francese, che vende ai turisti; vuole che io lo traduca in italiano, 5 lire a pagina e 50 in più se il lavoro è venuto bene, da pagare dopo che  qualcuno gli confermi la validità della traduzione. L’accordo fa acqua da tutte le parti ma decido di accettare per fare un po’ di esercizio di francese e per non rifiutare la prima proposta di lavoro da che sono in Turchia. Chiama la zia, sono andate prima alla cittadella ma stanno scendendo, le vado incontro. Eccole, c’è la sua amica inseparabile di tanti viaggi: la Lella  e mi sembra incredibile di vedere due persone conosciute qua, non solo conosciute ma la zia Orsola, la mia madrina, la zia che mi cotonava i capelli alla fine degli anni ottanta e mi ha comprato o passato un sacco di scarpe, giacche, vestiti. Con cui ho dormito tante volte da piccola: La Zia insomma. Siamo entrate al museo, l’unico di tutta Ankara che è a pagamento e costa quanto in Italia. Mentre gironzoliamo tra la cultura Ittiita e Frigia la zia mi racconta della nonna, delle Luda e della nuova badante rumena dalla faccia triste. Poi mi racconta della mamma e del suo cuore sanguinante da che sono partita e della zia Nella, lo zio Nitto e tutti i cugini e lei mi chiede di Michele, di Enrico e se vale la pena stare qua e poi mi racconta dell’Italia e dell’aria pesante che si respira per via della crisi.

L’Italia sembra fatta apposta per essere rimpianta. Vista da distante si riesce a vederne tutta la bellezza, quando poi ci si è dentro ci si perde nelle innumerevoli contraddizioni, diversità, screpolature. E Genova, la Superba, sembra il cameo al collo di questa aristocratica con i vestiti a volte rivoltati ma sempre ricchi di velluti e ori, mollemente adagiata sul mare più bello del mondo.

Ankara – Tempesta di sabbia.

Esco dal negozio dove sono andata a fare spese dopo scuola, si è alzato il vento. In tre mesi questa è la seconda volta che c’è il vento ad Ankara. La prima volta aveva scatenato una tempesta di neve ma non era durata a lungo e poi quando nevica tre o quattro volte a settimana e il termometro va a meno venti una tempesta di neve uno se la può anche aspettare.

Ma ora è arrivata la primavera e, escludendo qualche nuvola passeggera che innaffia i parchi e le numerose aiuole coltivate a fiorellini, il cielo è terso e tutti passeggiano con l’inpermiabile o lo spolverino. Il sole è scomparso, al suo posto un disco bianco è appeso in un cielo grigio/marrone. Alcune persone camminano come se nulla fosse, altre indossano una mascherina, l’aria si è fatta ad un tratto irrespirabile e gli occhi bruciano: è polvere quella che colora il cielo e nasconde il sole. Dietro la prima fila di palazzi non si scorge più nulla, sembra le rare volte che ho visto la nebbia, anzi che non ho visto a causa della nebbia. Ma questo non è vapore acqueo: è il famoso pulviscolo anatolico. Il deserto di polvere che circonda Ankara è stato sollevato dal vento e ora invade la città. Gli alberi, che si erigono ordinati ai margini delle larghe strade, oscillano toccando con i loro rami le teste dei passanti, lasciando cadere rametti, pollini, pigne. Il vento spalanca le porte dei negozi, fa volare i birilli che segnalano farmacie, posteggi, taxi. Le macchine cedono velocemente all’armata di polvere e il traffico rallenta lasciando qualche strada deserta. I ponteggi, pericolanti con il sole, ora tremano come una vecchia e io cammino guardando in alto i balconi e le finestre. C’è troppo vento anche per questo e inizio a lacrimare e a tossire. Ma perché fumo sempre meno che tanto adesso mi sto’ respirando un intero deserto? Mi sento la polvere ovunque, credo di essere anche io in tonalità grigio/marrone e cerco un fazzoletto da premermi sul naso. Il fatto che alcuni ankaresi siano pronti con le mascherine mi fa temere che non sia un attacco solitario ma un evento che si presenta di tanto in tanto: una tempesta di polvere che entra in città. Arrivo a casa, la polvere è entrata nelle verande e si è attaccata ai vetri, due pannelli del terrazzo ci hanno abbandonato e non voglio sapere dove siano atterrati. In  veranda analizzo la polvere, è rossiccia, una sabbia sottile che si attacca alle mani. Prendo una sciarpa da avvoltolarmi sul volto tipo bandito, per gli occhi non posso fare nulla. Riesco per andare a prendere Michele. Arrivata a scuola e chiusa la porta di ingresso riprendo a respirare. L’atrio della scuola è addobbato con le bandierine turche e alla porta troneggia una foto di Ataturk con tutti i festoni attorno. Si preparano per il 23 Aprile, giorno della festa dei bambini. Suono. La maestra mi apre, chiama Michele. Michele, dopo avermi baciata mi chiede chi è il signore appeso alla porta. -Ataturk- risponde la maestra, -Ehhh?- fa Michele. -Ataturk- ripete la maestra. -Ehhh???- ripete Michele. -Ataturk- risponde sempre seria la maestra. – Ma chi è?- Richiede Michele. -Ataturk-. Risponde imperturbabile Emine, incredula che qualcuno non conosca il padre della patria. Dopo questo dialogo riesco ad uscire da scuola e Michele vuole andare al parco. – Non si può, c’è la tempesta di sabbia- gli dico. e lui inizia a lamentarsi che la polvere è sulla sua bicicletta, che ha la polvere negli occhi, che la polvere gli da fastidio, che è venuto buio. E in effetti la luce è ancora cambiata, ora siamo su delle tonalità del verde. Quando arriviamo a casa il vento inizia a placarsi e la luce inizia a filtrare attraverso il cielo saturo.

Ankara- cinli locandaya gidelim

Una scolaresca femminile (mancano i çocuklar e l’iracheno) attraversa Tunali. In testa c’è Cemil, il nostro professore preferito, chiude la fila un suo amico. Credo che  i suoi amici vogliano conoscere le “russe” e per questo ne abbia invitato uno. In mattinata gli abbiamo fatto un’intervista in turco e poi lo abbiamo invitato a pranzo.

‘E un militare della marina, guida gli elicotteri e fa il figo. Marian, l’iraniana, sta al gioco protetta dalla nipote che le siede affianco. Alla fine Zoe (e qualcosa), l’afgana, lo interrompe dicendogli qualcosa in turco, credo che gli abbia detto che suo marito è un alto ufficiale dell’esercito afgano. Il soldato abbassa la cresta, finalmente. Tutti interrogano Susan, la cinese, sul cibo e lei cerca di dire che è cattivo in modo gentile. Io, Lina (la siriana), Susan e Giulia ( una delle russe, colei che presentandosi ha detto: sono Giulia, prima ero una economista oggi sono una moglie) stiamo in silenzio per tutto il pranzo mentre le altre parlano in turco, pieno di errori forse. A un certo punto il marito della pink lady russa la chiama e vuole parlare con Cemil. Dopo qualche tempo arriva quest’uomo alto, con l’auricolare nell’orecchio. Entra, saluta, guarda chi c’è, si presenta e fa un cenno alla moglie che è già pronta e saltella dietro di lui, in bilico sui tacchi a spillo, verso la macchina. Sulla tavolata cala il gelo. Zoe dice qualcosa e chi la capisce stenta a ridere, lei si schernisce dicendo che è una battuta. Tocca a Cemil dire qualcosa: -Ora vi verranno a prendere i vostri mariti ad una ad una- e Marian e Zoe si affrettano a dire che i loro mariti non sono neanche in Turchia. Silenzio.

Venerdì prossimo Cemil ci ha invitati a una colazione alla turca e le russe (tranne l’economista) hanno gentilmente declinato l’invito.