Dopo aver preso il 427 ed essere scesa ad Ulus mi sono inerpicata verso la Cittadella. Un signore in giacca e cravatta e la faccia da turco magro mi ha chiesto se volevo un passaggio, stava giusto giusto andando a prendere la macchina. Ho rifiutato. Dopo cinque minuti di salita stile via Assarotti il turco magro si ripresenta in macchina, come tutti i tacchini del mondo mi segue a passo d’uomo e mi ri-propone il suo disinteressato aiuto. Va bene, tanto sono sopravvissuta a cascamorti anche peggiori di un turco brillantinato. Salgo in macchina e sfoggio tutto il mio turco inesistente. Benim Adim Arianna, Italialym, ben evlim, hayir, benim numeranin telefonum vermiyorum cunku benim esim…. ( mi chiamo arianna, sono italiana, sono sposata, non non dò il mio numero di telefono perché mio marito…), per mia fortuna non devo neanche finire la frase, alla parola marito si fa subito rispettoso.
Mi lascia davanti al museo delle ” Civiltà anatoliche”, mi sono risparmiata una salita che non finiva più e sono solo le 9 e 45, la zia Orsola dovrebbe arrivare per le 10 e mezza. Mi siedo sul muretto di fronte al museo. Sono felice di vedere la zia, il tempo è bello e il museo non l’ho ancora visto e tutti ne parlano molto bene, ha anche vinto un premio come miglior museo Europeo ( ancora questa confusione se la Turchia è Europa o no, e più ci vivo e più penso di no anche se ha influenzato tanto della nostra storia che forse è come la Grecia, difficile chiamare Europa un luogo senza di lei).
Il museo è subito sotto la Cittadella, un monte in mezzo ad Ankara dal quale si ha una visione aerea della città. Il venerdì a mezzogiorno, quando i minareti iniziano a cantare e a rispondersi, sembra di essere sospesi nel cielo col mondo sotto i piedi. Ma ora non è mezzogiorno e attorno a me c’è un’umanità solitamente estranea alla Signora Ankara: ci sono i pulman dei turisti e subito richiamano un nugolo di venditori cenciosi che li accoglie per ricavarne qualcosa.
Ci sono i banchetti che vendono gli occhi di balena, come chiama Michele gli amuleti turchi, e braccialetti, tovaglie ricamate a nastri e cappellini. Tutti spiaccicano qualche parola in tutte le lingue, Italiano compreso e tutti accettano euro con un equiparazione a 1 euro 1 lira turca (il cambio è tra 1,30 e 1,40).
E i pulman continuano ad arrivare e a riversare facce un po’ sperdute che si ritraggono e subito entrano nel museo per uscirne e risalire sul pulman verso la Cappadokia. Di Ankara tutte queste persone hanno visto solo la cima del pizzo più alto della città, hanno rimirato la sua estensione e i suoi zingarelli e poi se ne sono andati via.
La zia mi manda un messaggio e mi dice che arriva con un ora di ritardo perché non sono ancora entrati in città. Ieri hanno visitato Istanbul, hanno dormito a metà strada e poi proseguiranno per il resto della nazione: tutta la Turchia in otto giorni, credo che si chiami il tour.
Davanti a me c’è una macchina bianca, dentro un uomo più vecchio che giovane, dalla faccia rossa e dal respiro affannato si presenta come guida del museo ufficiale in italiano e in francese. Affianco a lui una ragazza più giovane si affanna a vendere delle tovagliette ricamate ogni volta che un pulman arriva.
Dopo esserci scambiati qualche stentato convenevolo in italiano iniziamo a parlare in francese. Lui è un professore di letteratura che ha lavorato tanti anni in Francia, lei ha una figlia nata là e quindi francese, si lamentano di quanto sia cara la scuola francese di Ankara e mi fanno un sacco di domande a cui cerco di rispondere in maniera evasiva. ‘E mai possibile che i turchi vadano sempre così sul personale: quanto guadagni (la cifra precisa), dove va tuo figlio a scuola (il nome della scuola), dove abiti (il nome della via) ecc.. non è la prima volta che mi capita e ho sempre una sensazione di disagio quindi dico le prime bugie che mi vengono in mente. Le prime volte ero convinta che mi volessero rapire Michele, l’ho anche sognato e ora non riesco più a vedere la mamma e il papà di una compagna di Michele con la stessa simpatia di prima, poi ci ho fatto l’abitudine e dico delle bugie, tanto per stare tranquilla. Ma loro no, ti danno anche l’indirizzo di casa loro. Dopo un po’ il signore rubicondo si mette in testa di insegnarmi il turco e inizia a farmi ripetere delle frasi qualunque che poi traduciamo in francese. Passa l’ora in cui la zia doveva arrivare. Ho finito il mio succo di nar (melograno) e la guida mi propone di fare un lavoro per lui. Dal bagagliaio tira fuori un libricino con delle foto a colori, è il suo tour del museo, scritto in francese, che vende ai turisti; vuole che io lo traduca in italiano, 5 lire a pagina e 50 in più se il lavoro è venuto bene, da pagare dopo che qualcuno gli confermi la validità della traduzione. L’accordo fa acqua da tutte le parti ma decido di accettare per fare un po’ di esercizio di francese e per non rifiutare la prima proposta di lavoro da che sono in Turchia. Chiama la zia, sono andate prima alla cittadella ma stanno scendendo, le vado incontro. Eccole, c’è la sua amica inseparabile di tanti viaggi: la Lella e mi sembra incredibile di vedere due persone conosciute qua, non solo conosciute ma la zia Orsola, la mia madrina, la zia che mi cotonava i capelli alla fine degli anni ottanta e mi ha comprato o passato un sacco di scarpe, giacche, vestiti. Con cui ho dormito tante volte da piccola: La Zia insomma. Siamo entrate al museo, l’unico di tutta Ankara che è a pagamento e costa quanto in Italia. Mentre gironzoliamo tra la cultura Ittiita e Frigia la zia mi racconta della nonna, delle Luda e della nuova badante rumena dalla faccia triste. Poi mi racconta della mamma e del suo cuore sanguinante da che sono partita e della zia Nella, lo zio Nitto e tutti i cugini e lei mi chiede di Michele, di Enrico e se vale la pena stare qua e poi mi racconta dell’Italia e dell’aria pesante che si respira per via della crisi.
L’Italia sembra fatta apposta per essere rimpianta. Vista da distante si riesce a vederne tutta la bellezza, quando poi ci si è dentro ci si perde nelle innumerevoli contraddizioni, diversità, screpolature. E Genova, la Superba, sembra il cameo al collo di questa aristocratica con i vestiti a volte rivoltati ma sempre ricchi di velluti e ori, mollemente adagiata sul mare più bello del mondo.