Campo estivo e ostonecrosi

Word ArtMi arriva la mail dal Camp Perthes,

mi era già arrivata la mail come genitore di un bambino del campo, ora arriva quella come volontaria.

Premessa.

A Michele, mio figlio grande, viene diagnosticato il Perthes (ostonecrosi dell’apice femorale) il 16 agosto 2018.

il 7 dicembre viene operato. Mentre veniva operato io ho pensato: “Tutto questo non può essere solo sfiga! Dobbiamo andare in California al Campo estivo fatto dalla associazione internazionale che si occupa di Perthes!” 

Poi in California non ci andiamo ma partiamo in macchina verso Winchester nel sud dell’Inghilterra io, Michele, Enrico e Gilda. L’associazione Americana ha 3 campi aperti sparsi in 3 continenti (in California, in Inghilterra e in Australia), ognuna fa riferimento a una comunità locale che si muove per sensibilizzare, aiutare e fare ricerca: la malattia di Perthes è una malattia benigna (in quanto andrà a guarire) ma influenza tutta la crescita dei bambini perché dura diversi anni (l’infanzia e/o l’adolescenza) e ne mina pesantemente la mobilità. Quindi è fondamentale trovare un modo per far giocare assieme i bambini e che essi non si identifichino con quel pezzettino di osso che manca. Il nostro essere latini (e melodrammatici) non ci aiuta, meglio gli anglosassoni: quindi si parte. Questa esperienza speriamo ci aiuterà nella costruzione di una associazione qua in Italia.

Io e Michele saremo nel campo per 5 giorni. Enrico e Gilda nel campeggio vicino.

Io e Michele non parliamo molto bene l’inglese. 

E la seconda mail, quella per i volontari, è un file immagine e quindi non posso usare google traduttore.

Ora chiamo Alessandria per confermare la visita del 6 agosto per Michele, prima tappa di questo viaggio: Rx dell’anca sotto carico.

 

IL MURO- Sulla costruzione dei muri.

Di mattoni, di ferro, di gomma.

Sui confini, tra le case, nel cuore.

Al di qua, al di là, in mezzo.

Lo costruisco, lo subisco, lo vivo.

Lo combatto, ne ho paura, lo ignoro.

Lo esalto, mi protegge, mi offende.

Lo scavalco, lo piccono, lo ingrandisco.

Lungo, alto, spesso.

Più lungo, più alto, più spesso.

Lo proteggo.

Lo amo.

Scappo.

Tra me e te.

Scappo.

Da me o da te?

Ritorno.

Ma non riesco.

A entrare. A uscire.

Tra città e città. Tra strada e strada. Tra casa e casa. Tra stanza e stanza.

C’è un muro.

Contro un muro: la testa/ la palla

Un muro di parole.

Sbircio.

Parziale, discontinuo, nascosto.

Dietro un muro.

Quattro muri.

Tra l’alto e il basso.

Tra destra e sinistra.

Tra la cucina e il bagno.

Chi c’è di là?

Non ti conosco.

Ti sbircio.

Ti spio.

Ti controllo.

Chi c’è di là?

Non vedo.

Non so.

Nessuno? Uno? Molti?

Vogliono entrare o uscire?

Perché c’è un muro?

Non ricordo. Glielo chiedo.

Ma sei tu che lo hai costruito o io?

Tu? Ma non ero io?

Non ti capisco.

Muro contro muro.

La mamma di Siam

La mamma di Siam

‘E un’ombra nera

Sui muri bianchi dell’asilo

Nei disegni appesi in classe.

– Perché la mamma di Siam è fasciata?

– Per fare un regalo a Dio.

– Perché tu non sei fasciata, mamma?

– Perché Dio non esiste.

Sorride

E corre a giocare sulla banchina.

La Darsena risplende

Reti

Calamite a un euro

Bottiglie di birra sotto la passerella in teak.

-Ode a sfax

Sfax è una ragazza che sarebbe bella se non fosse sporca

Ha un’aria luminosa ma il suo alito puzza di diossina e fosfati,

I suoi occhi sono azzurri,

i suoi capelli foglie di palma,

i suoi vestiti bianchi coi merletti

                                                     – ma i vestiti sono consunti,

i merletti strappati,

le foglie di palma polverose-

Sulla sua pelle brulicano motorini scarnificati

salafiti in tunica e  barba

– spettri neri si tengono al sellino.-

Le orecchie di Sfax sono i bacini del porto,

nei padiglioni galleggiano bottiglie di plastica

– vecchi treni disel ne penetrano i lobi.-

La bocca di Sfax è la sua medina

-sangue, mosche e sudore.-

Il cuore di Sfax è il suo giardino municipale

– panchine divelte, scivoli rotti, altalene rubate.

Un cinghiale corre in due metri quadrati.-

Sfax non può vedere la luna

– le tapparelle sono abbassate, le strade vuote.-

Sfax canta cinque volte al giorno

-voci di fantasmi da altoparlanti sfondati.-

Sfax è l’Industriosa

-ma non fa i compiti.-

Sfax non ride

-nel dubbio sparla.-

Sfax non scopa

-neanche da sposata..

Sfax è preoccupata

-ma sempre per la cosa sbagliata.

 

Il deserto

Douze

Douze

– Bismillah!  Bismillah! Bismillah! (Che poi in tunisino si dice Bismelleh!)

Michele canta legato al seggiolino, sedile dietro della jeep del nonno Sebastiano, accanto ad Enrico. Sgranocchiamo mandorle tostate e pistacchi salati.

-E poi Michi? Non fa solo Bismelleh, come va avanti?

-Bismelleh! Bismelleh!

Per provare la sua buona fede Michele canta a volume più alto ma il suo “atto di fede” non va avanti più dell’incipitt.

Sebastiano guarda la strada, passiamo la montagna di solfiti, stiamo andando verso sud: destinazione il deserto, il Sahara.

-Bismelleh! Bismelleh!

-Michele fa Corano tre volte a settimana a scuola e gli ho chiesto di imparare almeno l’atto di fede.

Sebastiano continua a guidare. Banchetti di frutta puntellano la strada come delle pietre miliari: in mezzo all’autostrada un uomo ogni 50/100 mt ha un’asse di legno sollevata da alcuni mattoni, sopra vi sono dei vasi di plastica neri ricolmi di frutta; dietro di loro campi. Non si vedono macchine, motorini, asini; come se questi uomini vivessero lì, ai bordi  della strada, ricoperti da mantelli jedi color grigio o marrone.

– Su Le Presse c’è scritto che il Sahara è battuto da bande armate di Al Qaida provenienti dalla Libia. Hanno ammazzato nove poliziotti ad agosto e sette il mese scorso.

-Bismelleh! Bismelleh!

La strada si divide in due carreggiate, una è chiusa per lavori. Sulla sinistra c’è il mare: nelle acque basse gli aironi rosa riposano su una zampa, il sole è alto; donne e uomini chini sul pelo dell’acqua, forse raccolgono ostriche.

-Quando un commando ceceno ha assaltato il teatro Dubrovka, si dice che i terroristi  abbiano rilasciato tutti coloro che conoscevano l’atto di fede islamico. Per questo ho chiesto a Michele di impararlo, potrebbe salvarci la vita.

Sebastiano non risponde, stiamo arrivando a Gezbe e venditori abusivi di benzina affollano i bordi dell’autostrada.

La benzina arriva di contrabbando dalla Libia, una tanica di plastica decollata è sostenuta da una raggiera di bacchetti di metallo, a coprirla un telo da cui esce un pezzo di tubo. Sono decine e gli uni vicino agli altri: forse Al Qaida non è il pericolo più grande che ci aspetta.

Douze.2013-11-24 14.06.25

Entro in un negozio che vende collane del deserto.

Io, Enrico e Michele siamo già pieni di sabbia, una sabbia fine, bianca come un talco che ci incipria il naso le guance ed entra nei vestiti.

Un ragazzo alto, con gli occhi contornati di kajal e un turbante blu a forma di disco volante, ci accoglie:

– Da dove venite?

-Da Sfax.

Ci guarda dubbioso.

– Mio marito lavora lì.

Aggiungo io.

-Ma lo sapete che Sfax puzza perché non ha i sifoni?

– I sifoni?

-Sì, né nei gabinetti né nei lavandini.

Ridiamo. So che non è vero, ho cercato di cambiare la guarnizione del lavandino della cucina settimana scorsa e il sifone c’era ( la guarnizione invece non sono riuscita a trovarla, o non hanno guarnizioni di ricambio o non hanno voluto venderle a me) ma mi fa ridere che persino qua, spersa nel deserto, un uomo vestito da UFO mi parli male degli Sfaxiani.

Oasi di Ksarghilane

Oasi di Ksarghilane

– Sono tirchi, avari, non sanno vivere…

E’ talmente preso dalla sua invettiva che non cerca di venderci nulla.

Sono arrivata qua pensando di trovare un deserto di plastica e rumenta e invece è tutto pulito, la gente non è ricca ma ti guarda dritto negli occhi e quelli occhi confermano quello che dicono, sillaba per sillaba (gli Sfaxiani una cosa dicono con gli occhi e un altra con la bocca).

Le strade, battute dai venti del deserto, sono protette da foglie di palma intrecciate, le oasi sono irrigate da complessi canali, ovunque mi giri c’è lavoro e cura dell’uomo. Non vedo donne in giro ma solo uomini velati per proteggersi dalla sabbia e dal vento.

– Ci disprezzano.

Mi dice un signore nell’oasi di Ksarghilane.

– Ci disprezzano perché viviamo nel deserto.

Un gruppo di ragazzi lombardi, inguainati in tute bianche e rosse, si alzano da un tavolino dietro di noi; ci salutano, riprendono il loro giro del deserto in moto.

Dromedaria e Dromedarino

Dromedaria e Dromedarino

Michele saluta i centauri e poi esplora la pozza d’acqua calda che sorge al centro dell’oasi. Sebastiano torna dopo essersi fatto rabboccare il serbatoio.

Attorno a noi sabbia: un mare statico che ondeggia.

Hammam Boudaya

ciabatte

Gli armadietti celesti anni ’60 hanno i numeri scritti col pennarello nero sbavato e tremolante: 39 38 64. Sono numeri casuali dispersi tra colonne mal dipinte, tappeti sovrapposti su cui giacciono bucce d’arancia, bustine di plastica, cartellini di vestiti. Alle pareti piastrelle bianche e nere o a fiori, specchi e cassette di plastica contenenti zoccoli in legno e copertone.

Una delle due ragazze che mi hanno adottato questo pomeriggio cerca disperatamente un elastico, è una ragazza sui vent’anni, dai capelli neri e una lunga cicatrice sulla pancia.

La vecchia pazza, una donna tatuata, con le trecce e una strana collana di stoffa al collo urla. E’ seduta in un angolo della stanza ancora nuda.

Difronte a me un’altra vecchia signora si veste: una lunga camicia azzurra, una camicia gialla e marrone, un paio di calzettoni viola.

Dentro l’hammam le donne erano tutte in topless: vecchie, giovani ed, escludendo le mie due amiche del pomeriggio, tutte le altre avevano una grande pancia sotto due tette ancora più grandi. Donne rubiconde che sembravano felici.

– Il matrimonio è terribile.

Mi dice una delle mie due amiche, non quella con la cicatrice che l’8 giugno si deve sposare con un uomo di 14 anni più vecchio di lei, l’altra.

-Per i primi due mesi è anche bello.

Dico io per scherzare.

– No, per un mese.

Risponde lei seria ma la sua tristezza dura poco, riprende ridere: oggi è il suo giorno di libertà.

Ha i capelli castani, è dritta, snella e ride sempre, ha fatto la scuola di pasticceria ma ora che è sposata con un figlio non può più lavorare. Ha un paio di mutandine rosa acceso, i capelli lunghi che le cadono sulle spalle e sul seno ben formato. L’amica ci pulisce a turno con la spugna di crine, ci rincorriamo, aiutiamo le vecchie a sollevare i secchi d’acqua calda o fredda.

Una ragazza ci chiama per farci lo scrub, ha scritto sulle mutande “kiss me” e noi cadiamo vittime di una ridarella irrefrenabile. Hanno vent’anni e poco più e sono leggere come farfalle.

L’hammam è pieno di tubi blu che portano acqua bollente, secchi di plastica male in arnese, piastrelle sbeccate e muffa. Tutte veniamo lavate con lo stesso guanto di crine, la stessa rete imbevuta di sapone di Aleppo. Mi trattano come una di loro e io gioco a rispondere in francese alle donne che parlano in arabo di me.

-No, non sono francese, sono italiana.

E le panzone si guardano stupite e mi chiedono:

-Ma allora capisci l’arabo?

E io rido strizzando l’occhio alle mie amiche della giornata che ridono di rimando forse non sapendo neanche loro il perché.

Siamo nello spogliatoio e la vecchia non ha ancora finito di vestirsi, ora è il turno di un paio di larghi pantaloni neri e bianchi.

A differenza di quello che accade per la strada dove tutti cercano di travolgermi qua, in questo gineceo, tutte si aiutano e la vecchia dai capelli bianchi viene vestita a turno dalle donne che escono dal bagno.

La vecchia si mette in testa un velo azzurro e sopra uno bianco bordato di rosso.

Vado ad aiutare la vecchia a mettersi uno strano coso a fiori, terzo o quarto strato di vestiti che la ingolfano. Mi dice qualcosa in arabo e io le sorrido, una panzona le spiega che io non parlo arabo e la vecchia mi accarezza.

Pago sei dinari per l’hammam.

– Il doppio di quanto paghiamo noi.

Mi dice una delle mie amiche.

Infondo resto sempre una turista.

Vento

Soffia il vento, un vento forte che solleva la polvere gialla accumulata sui marciapiedi, un vento che fa volare i sacchetti neri, blu, bianchi; un vento che trasporta il fumo bianco dalla discarica dentro la città, fino a me, chiusa nel mio Taparura Immobile.

‘E una nebbia densa che parte da un punto davanti alla mia finestra, un punto affacciato sul mare (questa nube ha inghiottito tutto, anche le fiamme che divorano i rifiuti rilasciando i liquami in mare).

Il sole è alto e rende il fumo della discarica ancora più bianco e luminoso come le nuvole quando sei in aereo.

‘E una città di morte, un cimitero all’alba quando il sole sorge, asciuga l’erba tra le lapidi, la rugiada evapora.

Le mie lapidi sono i palazzi in costruzione o scrostati, le gru, i tetti puntellati di paraboliche.

Vento.

Il mare ora luccica distante, è uno specchio argenteo. La sagoma della montagna di solfiti, alta e squadrata, riemerge dal bianco.

Un gabbiano vola.

Sousse e massaggi

Women-Burqini&Swimwear-store-Ma non posso fare l’hammam prima del massaggio, con lo scrub?

-Ma certo signora.

Il signore all’accoglienza del centro massaggi dell’albergo è sorridente e accondiscendente. La prima volta che l’ho incontrato mi ha proposto dei prezzi impossibili, la seconda volta ci ha accompagnato Sebastiano e i prezzi si sono ridotti a un terzo. Ora provo a tirare ulteriormente la corda anche se non mi piace contrattare.

Sto zitta e aspetto qualche secondo e poi chiedo:

-Quanto?

Mi dice un prezzo, faccio finta di nulla, me ne dice un altro, continuo a fare la sfinge. Che palle di sistema!

Riusciamo ad avere hammam, scrub, massaggio e piscina con le bolle riscaldata ad un prezzo più che accettabile. Posso sorridere ora? Togliermi la maschera da sciura che contratta?

L’hammam è misto, non dovrebbe esserlo ma siamo turisti che diamine! C’è una gradinata in marmo, in cima esce il vapore, un uomo grande e peloso si siede sul gradino più alto; ci salgo anche io. Il vapore esce da due bocchettoni e le goccioline mi bruciano la schiena; Enrico rimane in basso e, ogni tanto, va a bagnarsi i polsi con l’acqua fredda. L’ambiente è pulito.

Lo scrub è praticato da una donnona muscolosa, sulla sua faccia ottusa c’è scritto: “turisti che non capite nulla, ecco due secchiate di sapone e una strigliata”, rimpiango il Karacabey di Ankara.

Vengo affidata a una ragazza bruna che mi massaggia da capo a piedi, anzi da piedi a capo e mi unge come una sardina. Esco dondolando nelle ciabatte di plastica bianca. Enrico è già nella piscina con le bolle. Bolle, tante bolle, voglio un rapporto completo con tutti i getti d’acqua presenti in piscina! Enrico mi trasporta come una zattera tra le luci e le colonne, ci spruzziamo. Una donna incinta in tuta blu integrale (il burquini) passeggia in tondo in una vasca a idromassaggio bassa, altre due barbapapà nuotano vicino a noi che amoreggiamo con i getti d’acqua che ci sollevano il costume. Due ragazze in tutù (costume intero con gonnellina inserita) fanno acquagym attaccate a delle sbarre.

Michele è a pescare con il nonno Sebastiano e noi due ci godiamo una pausa dalla brutta Sfax.